racconto: I sogni di una quercia


Era dura svegliarsi ogni mattina consapevole della solita e dura giornata che mi attendeva.
Ancora a letto, con gli occhi socchiusi fissavo le fredde pareti bianche sulle quali potevo scorgere i frammenti di un sogno, e gia il mio animo si immergeva in quel mare di angoscia ottenebrato dalla rassegnazione dell’oblio.
Mi sciacquai il viso con l’acqua gelida del secchio e dopo una pisciata liberatoria e uno sguardo veloce allo specchio, gia tutto era andato perso come “lacrime nella pioggia”.
Un’occhiata malinconica alla finestra per costatare il cielo plumbeo che stava abdicando a favore di una lontana striscia turchina che si espandeva all’orizzonte e che lasciava infiltrare prepotentemente i raggi del sole con la promessa di una bella giornata.
Poi dritto verso il sentiero.
C’era sempre qualche motivo musicale che avevo in mente al risveglio, lungo il sentiero lo cantavo come una straziante litania mentre mille pensieri si affollavano e si sovrapponevano con la forza e l’impeto di un fiume in piena che mi trascinava inerte.
Non mi accorgevo neppure di camminare sulla strada perché ormai le mie gambe la conoscevano a memoria tante erano le volte che l’avevano percorsa.
Osservavo attorno gli alberi, le case e la gente che salutavo regolarmente, tutti presi nelle loro faccende, consapevoli del loro ruolo nella vita, senza alcuna pretesa di comprendere il significato di ciò che mi pareva come una sciocca e futile esistenza.
Sul ciglio della strada la vecchia quercia sempre immobile e immutata sembrava ammonire: “Sono contenta, perché è così che voglio morire”.
Poco più in là un prato bagnato che si godeva il tepore dei primi raggi del sole e che invitava a distendersi sopra incurante delle responsabilità e dei doveri che gravavano ogni giorno sulle nostre spalle incurvate.
La via alberata sembrava avvolgermi e cullarmi nell’ombra dei suoi rami, e in fondo la luce del giorno che si faceva più imponente e maestosa.
Giunto al capanno prendevo gli attrezzi e iniziavo a lavorare, le mie braccia sapevano per conto loro cosa dovevano fare sui campi tanti erano gli anni che vi si erano sporcate di terra.
A metà mattina, passava il giovane pastore a salutarmi e a raccontarmi i sogni e le speranze come io li avevo alla sua età. Voleva girare il mondo, voleva vedere i resti del grandioso impero cinese, i mercati affollati del sud-est asiatico, i sacri rituali di purificazione nella Mecca. Voleva incontrare donne di ogni etnia e guardarle nel profondo dei loro occhi per conoscerle più di quanto avrebbe potuto fare scambiando con loro mille e inutili parole.
Io me ne stavo in silenzio sorseggiando dell’acqua, ma i miei occhi tradivano delusione e amarezza, e senza che nulla dicessi il pastore obbiettava con fermezza, perché questo veramente gli importava.
Poi se ne andava salutandomi con un sorriso sincero per poi imprecare dietro alle sue pecore che ancora si chiedevano che ci faceva quello strano tizio tra loro.
Io in fondo lo invidiavo e mentre lo guardavo allontanarsi, pensavo che quello era il periodo più bello, quando il pensiero è perso nei sogni e il resto è niente.
Mi voltai verso il sole e mi accorsi che la giornata era ancora lunga e il campo mi reclamava.
Detestavo la terra ma ormai ne ero parte integrante e in fondo mi rassicurava averla sempre sotto i piedi, sempre uguale.
Finalmente la giornata giunse a termine e mi diressi verso casa stanco e impaziente di gettarmi sul letto senza altro desiderare.
A metà del percorso mi fermai a contemplare il sole calante dietro i rami della vecchia quercia, e il vecchio cuore di pietra incominciò ad incrinarsi e a sbriciolarsi come le arcate in arenaria di un antica cattedrale erosa per molti anni dal vento e dalla pioggia.
L’inquietudine invase il mio cuore, le mie gambe stanche cedettero al peso della mia angoscia e mi adagiai ai piedi del grande albero cercando un po’ di conforto.
Pareva la vecchia signora sussurrarmi “Riposa su di me e sogna, tornerai a casa più tardi”.
Chiusi gli occhi e una tiepida brezza asciugò le lacrime che non piansi, fino a che non mi addormentai in un sonno profondo.
L’aria gelida della notte mi svegliò penetrandomi nelle ossa, guardai dietro i rami la luna calante che illuminava tutto il paesaggio intorno.
Nel cielo di notte scorsi i miei sogni tra le stelle. Chiusi gli occhi per un istante, poi li riaprii.
Per nulla effimeri, l’urlo disperato nell’eterno silenzio divenne pace solenne.
Una stella brillava più delle altre, la seguii lasciandomi dietro doveri e rimpianti.
Poi la terra incominciò a tremare e spaventato mi alzai di scatto perché vidi nella penombra un cumulo di terra che si spostava veloce in mezzo al prato.
Che diavolo succede, esclamai. Oh, non ti preoccupare, mi rispose la vecchia quercia, è solo un mio vecchio amico africano che passando da queste parti è venuto a trovarmi.
Che razza di amici hai, che vagano di notte sotto terra facendola tremare e lasciando solchi come solo una talpa di due tonnellate può fare in un campo di carote, domandai.
Ma è un ippopotamo, a quelli della sua razza piace stare sotto, a parte le narici che per ovvie ragioni rimangono scoperte.
Un ippopotamo? Un diavolo di ippopotamo in queste zone? Che per giunta ama stare sotto la terra. Ma mia cara vecchia signora, con tutto il rispetto, se già è assurdo incontrare un essere di quella razza in queste lande, è ancora più improbabile che a quello piaccia stare sotto terra. Lo sanno tutti che gli ippopotami stanno immersi negli acquitrini e nelle pozzanghere, adorano spaparanzarsi nell’acqua.
Poi vidi sbucare dalla terra le enormi fauci dell’animale che sputavano le zolle che aveva staccato scavando nel terreno. L’essere si rese conto della mia presenza è impaurito si rituffo agilmente con la sua imponente mole sotto terra.
Inevitabilmente pensai che questo era un primo segno del mio cedimento, stavo crollando psicologicamente, stavo diventando pazzo. Solo nella campagna parlavo in piena notte con una quercia e vedevo “ippotalpe” o “talpepotami” o che altro poteva essere.
Non stai diventando pazzo, mi rassicurò la quercia che intuì il mio stato d’animo, è solo un ippopotamo esploratore, vuole qualcosa di più di quello che gli ha predestinato la vita, adora viaggiare e, siccome è molto timido e pauroso, lo fa solo di notte celandosi nella terra.
Ma tutto ciò è pazzesco, urlai addosso all’albero, che altro potrò mai vedere in questa folle notte, un gruppo di fenicotteri che ballano a ritmo di samba?
Manco il tempo di dirlo che vidi in fondo al prato un bombardamento di luci iridescenti accompagnate dalla cadenza sincopata di cento tamburi, e altrettanti fenicotteri rosa che avanzavano verso di me ballando e cantando a ritmo di samba.
Scoppiai in una fragorosa risata un po’ per l’assurdità di quella situazione e un po’ contagiato dall’allegria di quei pennuti che ora stavano girando in fila intorno alla quercia sempre ballando e cantando, fin che non potei fare a meno di unirmi a loro insieme all’ippotalpa che emerse dalla terra vincendo la sua timidezza, e insieme a tante altre strane creature e uomini e donne e bambini uniti nell’unico desiderio di vivere la vita ridendo e ballando. A ritmo di samba.

La mattina seguente i paesani non videro sul sentiero lo strano contadino che cantava e salutava tutti, e per un istante furono sconvolti perché in qualche modo ne aveva turbato la loro esistenza di consuetudini e di abitudini quotidiane.
Ma sapevano che in quelle rare notti d’estate in cui echeggiavano strani ritmi musicali e versi di strane creature, risate e parole in lingue sconosciute di ogni tempo e di ogni dove, qualcuno di loro avrebbe lasciato il paese per non tornavi più.