racconto: Lo sfogo

Dicono che io sia caratterizzato da una rassicurante e costante flemma.
Eppure ardo di rabbia incontrollabile. Brucio nell’inquietudine esistenziale. Delirio sospeso con lo sguardo fisso e ossessivo fuori in quel immenso vuoto punteggiato e avvolgente, come chiuso dentro un sacco di plastica trasparente in caduta libera nel cielo notturno di una grande metropoli.
Poi, con inquietudine, mi volto per buttare uno sguardo disgustato sulla parete del mio alloggio dove è riposta lei, adagiata sul pavimento come un qualsiasi bagaglio, in sembianze monolitiche, racchiusa da sei fredde superfici metalliche con qualche led di segnalazione a ricordarmi che purtroppo è ancora viva, statica e inanimata, glaciale e incondizionata dall’illusione rinnovata materiale, e se per assurdo un enorme masso venuto dal nulla per grazia divina le dovesse cadere addosso, neppure allora, sotto quel provvidenziale peso, se ancora ci fosse qualche circuito vitale illeso, lei si renderebbe conto perché incurante del lento mutare o del fugace e precario divenire.
Ricordo ancora.
I suoi bellissimi occhi, il suo incantevole sorriso, il suo volto fine talvolta serio e pensieroso come se portasse il peso di ogni male. Questo fu sufficiente a farmi sentire come un minuscolo granello di sabbia inabissato nell’oceano che portava il suo nome.
E io, che possedevo certe facoltà come pochissimi altri, in quello stato d’animo non ero in grado neppure di capirla, di scavalcare quella barriera invalicabile che ci separava per sapere chi era, cosa provasse, cosa pensasse di me, perché sovrastato dalla mia indomabile emotività di fronte alla sua presenza, mentre per lei ero un libro aperto.
In vita umana da sposati non fu facile, tuttavia ogni esperienza, discussione e problema era tangibile, travolgente e talvolta estasiante. Un doloroso ma dolce salire e scendere caratterizzava il nostro rapporto, ma nel bene e nel male ogni cosa era condivisa, poichè un’oscura forza ci univa e ci allontanava ciclicamente in un percorso che ci trasformava adducendo nuove qualità e nuovi difetti.
In effetti non furono poi così tanti i momenti di felicità, ma li ricordo tutti nostalgicamente come se fossero accaduti ieri, e pure le sofferenze e i travagli furono necessari alla nostra conoscenza reciproca e al rafforzamento del nostra relazione.
Morì prematuramente a novantaquattro anni per una rara malattia che la moderna medicina non era riuscita ancora a debellare.
In fin di morte, per nulla stanca di vivere, mi chiese di preservarla, e io per amore e nel timore di condurre il resto della mia vita in solitudine, pur di averla ancora accanto, accettai di sottoporla alla traslitterazione mentale che l’avrebbe confinata tra i circuiti bio-elettronici di un computer convinto che questo avrebbe supportato anche la sua anima.
Ora fisso quella scialba scatola metallica chiedendomi chi o che cosa sia realmente.
Mi inquieta, può essere giovane o vecchia, perfino bambina o non avere un’età definita, perché il suo nuovo piano esistenziale l’ha mutata in un nuovo essere, al di là dei limiti della natura umana, senza sesso, senza insicurezze, senza ipocrisia, ma piuttosto con una fredda e piuttosto seccante pungente cinica schiettezza di pensiero, senza l’ombra di reali sentimenti e soprattutto senza più amore nei miei confronti.
A volte immagino di depositarla in mezzo all’ hangar, ordino di aprire il portellone e poi la osservo spietatamente fuori dall’oblò allontanarsi risucchiata nello spazio profondo fino a che l’incontrastabile forza di attrazione di un buco nero la trascina dall’altra parte dell’universo o addirittura in un’altra dimensione. Mai sufficientemente lontana da me.
Ma non posso.